Working Class Queer-O
Qualche appunto per mettere a trenino - pardon, in fila - qualche questione su lotta Lgbtqia+ e lotta di classe
Questa settimana porrò fine anche alla politica del governo di cercare di ingegnerizzare socialmente la razza e il genere in ogni aspetto della vita pubblica e privata. Creeremo una società senza colori e basata sul merito. A partire da oggi, la politica ufficiale del governo degli Stati Uniti prevede che ci siano solo due generi, maschile e femminile.
- Donald J. Trump, Discorso di insediamento, 20 gennaio 2025
Quando ormai quasi dieci anni fa Pinkriot Arcigay Pisa organizzò un incontro con l'associazione Parks, fondata da Ivan Scalfarotto, in quell'occasione presentata se non ricordo male da Simona Massei, feci due domande: primo, se il raggio d'azione delle consulenze per il management delle diversità fornito dall'associazione si estendesse oltre le grandi imprese e arrivasse al livello delle PMI; secondo, per quale motivo non si orientasse verso i sindacati per il raggiungimento degli obiettivi di inclusione. La risposta alla prima domanda era ovviamente "no", per quanto riguarda la seconda la risposta fu vaga ma sulla falsariga dell'educare le aziende al rispetto per un'azione più strutturale ed efficace. Anni dopo, seguendo gli andamenti dei congressi e consigli nazionali di Arcigay dall'esterno, chiesi proprio se qualcos'altro era stato fatto in proposito a parte l'accordo con Manpower. Risposta: niente. L'unica iniziativa che si è mantenuta continuativa nel tempo - a bassa intensità anche e soprattutto per il basso investimento del sindacato e per la mancanza di teoria e organizzazione specifiche allo scopo - è stata l'attività dell'Ufficio Nuovi Diritti in Cgil.
In quel momento di cui parlavo prima - circa dieci anni fa appunto - come area antagonista queer di SomMovimento NazioAnale avevamo impostato il discorso economico sui soggetti queer non solo intorno al pink- e rainbow-washing, ma anche intorno al diversity management, del quale avevamo - credo - un'idea ancora piuttosto imprecisa, per un argomento che invece andava analizzato in profondità; credo anche ci facesse da ostacolo la ricerca della scorciatoia attraverso categorie come quelle della "femminilizzazione" e della "cognitivizzazione" del lavoro, che mentre coglievano adeguatamente alcune caratteristiche innovative nella gestione delle risorse umane delle aziende più grandi e avanzate, tendevano a non andare in profondità e a creare difficoltà nella pratica del loro contrasto.
Nell'antagonismo queer e nella teoria, soprattutto con il discioglimento dell'area e con l'emersione di raggruppamenti di orientamento più specificamente focalizzato sulle identità e di tendenze più anarchiche, andò progressivamente abbandonando l'analisi del diversity management e in generale della questione lavorativa delle persone Lgbtqia+, mentre ha continuato a mantenersi costante l'attenzione alla questione del pink- e rainbow-washing, pur in una sua versione estremamente semplificata. Una parte del discorso venne ripresa nel contesto di Non Una Di Meno, dove però la focalizzazione molto netta sul lavoro riproduttivo non ha dato molto spazio di sviluppo in profondità alla questione del lavoro salariato (nella prima sintesi ci si limitò a concordare sulle battaglie per il salario minimo europeo e per il reddito di base incondizionato: come si vede, due obiettivi molto larghi e poco dettagliati).
Si ripartiva da queste constatazioni nel momento in cui abbiamo lanciato il Tavolo Lavoro nel contesto di Stati Genderali. Nel contesto del quale cercavamo proprio di riallacciare i fili lasciati sciolti negli anni precedenti: 1. acquisizione del fatto che c'è una questione relativa al lavoro riproduttivo che procede in qualità di "doppio lavoro" specialmente in una fase di tagli e ritirata del welfare; 2. presa d'atto del fatto che c'è una specifica gestione delle persone Lgbtqia+ al lavoro, ma che non si dà solo nella forma della "discriminazione positiva" delle carriere preferenziali che analizzavamo nella critica al diversity management di anni prima, ma anche nella forma della discrimazione negativa "classica" che specialmente in paesi come l'Italia, col suo tessuto di piccole e medie imprese, continuava serenamente a coesistere con i programmi di diversità e inclusione più tipici di strutture produttive come quella statunitense (adesso, forse, è più chiaro il senso della domanda che feci all'incontro con Parks che menzionavo all'inizio); 3. che in ragione di questo era tanto più necessario comprendere fino in fondo la questione e organizzarci conseguentemente, rimettendo i tasselli teorici messi da parte al loro posto - tra cui anche la teoria marxiana del valore-lavoro, cosa che consentiva di spiegare e comprendere più efficacemente la situazione evitando confusioni come quella tra consumatore e lavoratore, o tra lavoro domestico non salariato e lavoro salariato.
Avvertivamo in ogni caso che il meccanismo del pinkwashing, collegato a doppio filo con quello del diversity management, non fosse semplicemente un patto d'acciaio che assicurava ai governi e alle borghesie internazionali la compiacenza delle persone Lgbtqia+, ma una propaganda di facciata che nascondeva una gestione perversa della forza lavoro Lgbtqia+ all'interno del sistema produttivo dove è da sempre inserita. E forse l'acquisizione più grossa era stata proprio dichiarare, per la prima volta da troppo tempo, che il punto di partenza doveva essere che la maggior parte delle persone Lgbtqia+ sono, prima di tutto, persone che lavorano. E che su questo fatto si poteva e si doveva fare leva se si voleva avanzare sia in ottica riformista, sia in ottica rivoluzionaria. La differenza nell'avanzamento sui diritti la fanno sì le condizioni politiche, ma anche le esigenze economiche; di conseguenza organizzazione politica e lotta economica sono la chiave l'una per l'altra non solo anche, ma soprattutto quando si tratta di questioni di genere. Né più e né meno come una sinistra decente dovrebbe ragionare (consiglio comunque di rileggere sia Lenin sia Luxemburg perché fa bene).
Naturalmente il fallimento organizzativo di Stati Genderali è più che conclamato e questo ha portato ciascuna delle persone che hanno animato quel tentativo a fare scelte diverse; personalmente credo che il fallimento organizzativo fosse inevitabile perché un'impostazione di analisi di quel tipo - che io credo corretta - richiede una specifica forma di intervento nel sindacato di massa e un'organizzazione politica di partito leninista; non ne parlerò qui. Qui invece quello che mi interessa dire è che di tutto questo discorso è rimasta traccia scritta, ed è possibile ricostruire questa linea che faticava a emergere stretta tra le linee di fuga di ambito queer verso la ricerca di altre forme di lotta politica, che io trovo sempre più astrattamente teoriche e prive di sbocco pratico, e la spada di Damocle delle sinistre che hanno continuato a guardarci o con la simpatia di una colorata aggiunta ai propri programmi elettorali, o col sospetto di un gruppo di infiltrati compiacenti ai suddetti patti d'acciaio. Quando dicevamo tutte queste cose stavamo indicando esattamente quello che sta finalmente - finalmente - emergendo anche nella discussione mainstream italiana, ovvero che la gestione della popolazione e della forza lavoro può cambiare in ragione delle esigenze economiche strutturali, e che se da anni si stava consumando in particolare sul corpo delle donne una guerra sempre più intensa rispetto ai diritti riproduttivi saremmo presto arrivati a doverci occupare anche di come questo attacco alla periferia del sistema si sarebbe poi diretto verso il suo classico centro - dove capitale e lavoro si danno battaglia.
Da mesi le maggiori multinazionali americane stanno retrocedendo dagli indici di diversità e inclusione - da molto prima dell'uscita allo scoperto di Elon Musk e del cambio delle policy di Meta attuato da Zuckerberg. La pessima (oppure ottima, dipende da come vogliamo vederla) notizia non è tanto e solo per le "diverse identities", è a tutto campo. Primo: perché come segnala questo articolo sull'Intercept (il giornale finanziato da eBay) condiviso da un compagno, le politiche DEI erano uno degli strumenti di soft power con cui le aziende cercavano di arginare l'organizzazione sindacale attraverso forme di cooptazione alternativa a quelle "generaliste". Tolta la carota, resta il bastone. I frontali con le organizzazioni sindacali sono destinati a identificarsi. Secondo: perché se le politiche di cooptazione del diversity management spaccavano già la classe lavoratrice, immaginate quanto lo faranno i licenziamenti differenziati in base per esempio alla discordanza di genere o alla razzializzazione. Trust Donald, fonderanno una società basata sul merito. L'avevamo già sentita questa balla, vero? Terzo: se tutte - o quasi - le aziende tolgono la carota, e lo fanno mentre è chiaro che Harris non vince e Trump sta tornando in pista, stavolta però in un clima di escalation militare e con l'intensificazione della guerra commerciale con la Cina, vuol dire che vogliono tirar fuori il bastone decidendo di aver scelto compattamente un referente politico che negli anni scorsi non era così chiaramente individuato come rappresentante della borghesia nazionale. Anche se racconta un sacco di balle. Adesso ci si ripropongono in salsa isolazionista americana. I compagni americani giustamente concludono:
Nonostante la loro spavalderia, i rappresentanti più lungimiranti della borghesia americana sanno di essere seduti sopra la pentola a pressione della lotta di classe, che alla fine esploderà loro in faccia.
Sarà il caso di mettere altro gas al fuoco. Colorato pure, come piace a noi.