Rust in Peace

Il vecchio muore e il nuovo non saprei, quella cosa lì di Gramsci Q 3, §34 che però il 1930 è una cosa diversa

Rust in Peace

High priests of holocaust, fire from the sea
Nuclear winter spreading disease
The day of final conflict
All pay the price
The third world war
Rapes peace, takes life

Megadeth, Rust in Peace... Polaris (1990)

Temo che sullo scambio di prigionieri (Cecilia Sala e Mohammed Abedini Najafabadi) pesi una sottovalutazione pericolosa. E penso che vada definita esattamente così - uno scambio di prigionieri - non nonostante, ma proprio perché quello che viene imputato a Sala e Abedini è completamente diverso.

Riassumendo: il governo italiano trattiene per una decina di giorni la notizia dell'arresto della giornalista Sala in Iran; nonostante in prima battuta la notizia venga inquadrata nel tema della libertà di informazione, in poco tempo viene associata all'arresto dell'ingegnere Abedini in Italia ma per conto degli Stati Uniti. Una buona fetta di opinione pubblica di sinistra - soprattutto della sinistra radicale - fa notare le due misure con cui si tratta il tema della libertà d'informazione e punta l'attenzione sull'enorme numero di giornalisti uccisi in Palestina a partire dal 7 ottobre 2023, mancando completamente il bersaglio, come diventa evidente dopo poco tempo. La libertà di informazione non c'entra nulla, né in positivo né in negativo, ma tutto sommato la reazione del giornalismo italiano e dell'opinione pubblica di sinistra ha senso: quella del trattenimento di Abedini e di Sala sembra una spy story alla quale apparentemente l'opinione pubblica italiana non è più abituata: gli avvelenamenti da polonio degli anni Duemila sono lontani e i sistemi di spionaggio della guerra fredda - quelli che conducevano per esempio alla costituzione dei Cambridge Five (tra i quali Anthony Blunt, curatore delle collezioni di pittura della Regina Elisabetta, esperto mondiale di Nicolas Poussin e - chicca - quello che inventa di sana pianta l'eccezionalismo della Noto e della Sicilia orientale barocche) - sono relegati al regno di una mitologia contemporanea (nemmeno più tanto: il Muro di Berlino è caduto da ormai quasi 36 anni) i cui confini con la repubblica del complottismo sono francamente sfumati.

Uno schiocco di dita e veniamo ripiombati in uno scenario da film sulla guerra fredda, con l'Iran che inizialmente fa vaghe allusioni a "violazioni delle leggi dello stato islamico" (non alle leggi islamiche) e gli Stati Uniti che si affrettano a scaricare sull'Italia la responsabilità della liberazione della sua cittadina e negano qualunque connessione tra l'arresto di Abedini e quello di Sala; contemporaneamente l'ambasciatore iraniano fa prima sapere che la connessione esiste eccome e che ecco, sarebbe davvero il caso che l'Italia liberasse Abedini, per poi ritornare a più miti consigli e negare qualunque collegamento tra le due vicende. Il tema è che affermare che Sala è detenuta per delle presunte violazioni delle leggi locali va letto in pendant con il fatto che il capo di accusa su Abedini - forniture per la realizzazione di droni militari, esattamente come ci si può aspettare in una congiuntura di guerra - è relativo al fatto che gli Stati Uniti considerano le Guardie della rivoluzione islamica un'organizzazione terroristica dal 2019 (sì, sono i famosi pasdaran che nell'antilingua giornalistica e politica italiana ogni tanto ricorrono). Non dall'Italia, però. Il che ovviamente ci ricaccia in una storiella molto classica e sfiancante che parla di dipendenza dell'Italia nemmeno più tanto dal Patto Atlantico, ma dagli Stati Uniti stessi, di inefficienza diplomatica italiana, di rigidità del regime iraniano, e tutto il contorno di luoghi comuni (tutto sommato veri) che attraversano l'arco parlamentare (e più in generale l'arco politico dell'opinione pubblica italiana).

Se non che ci sono degli elementi che non stanno venendo considerati se non per nutrire l'infittirsi della trama, come il retrocedere dell'Iran sul legame tra l'arresto di Sala e quello di Abedini. Che è esattamente l'anello debole del dibattito su questa vicenda su cui si articola, credo, l'elemento di sottovalutazione che mi spaventa. Non si tratta solo di una - presunta o reale - incompetenza diplomatica italiana, né solo dell'arroganza degli Stati Uniti o dell'Iran; si tratta del fatto che sta avvenendo uno scambio di prigionieri con uno dei paesi più influenti dell'area geografica in cui stanno infuriando quelli che a me sembrano i prodromi (ancora lontani, lontanissimi) di una terza guerra mondiale, o per lo meno di una divisione in blocchi imperialistici sempre più netti che ne costituiscono la precondizione (necessaria ma insufficiente). E quando si scambiano prigionieri vuol dire che una guerra, più o meno dichiarata, o c'è o si sta preparando. Certo, era il gioco preferito della guerra fredda, che non è mai stata una guerra mondiale, ma ha visto punte di tensione e conflitto militare aperto altissime. Che mi risulti, gli unici a vedere più lucidamente questi aspetti sono - non troppo incredibilmente - Avvenire e il manifesto.

Per quanto mi riguarda, negare che questa sia la sostanza degli avvenimenti in corso può avere due funzioni: una de-escalation localizzata e una rassicurazione per l'opinione pubblica dei paesi coinvolti - soprattutto se l'obiettivo non è, effettivamente, precipitare nell'immediato in una terza guerra mondiale ma gestire le inevitabili tensioni localizzate dell'escalation. Certo, le guerre ci sono in tutto il mondo e continuamente, ma appare più debole che mai l'argomento che circolava qualche anno fa nella sinistra radicale riguardo la bianchezza dello sguardo sulle guerre in corso. Tre anni di guerra in Ucraina e due di operazioni di pulizia etnica in Palestina non sono soltanto un elemento di preoccupazione bianca ed europea per eccessiva vicinanza a casa, sono un allargamento e un'intensificazione dei conflitti interimperialistici (e un regolamento di conti) in punti estremamente sensibili per gli equilibri economici e politici del capitalismo globale e del sistema interstatale attuale. Mentre tra Cina e Stati Uniti si svolge la guerra fredda e commerciale sulle terre rare del "nuovo" capitalismo dell'elettronica, del digitale e della green transition (nemmeno troppo fredda, a dire il vero), esplode la guerra calda del "vecchio" capitalismo fossile tra gasdotti russi e pozzi petroliferi mediorientali e west-asiatici. In questo spazio di sospensione nevrotica, in questo incavo ansiogeno, siamo quasi in attesa, in alcuni casi forse anche speranzosa, dell'esplosione finale.

Le escalation di caos sistemico che accompagnano la transizione da un regime di accumulazione all'altro sono momenti in cui magari non tutti, ma diversi nodi vengono al pettine: il genocidio palestinese, certo, e il ruolo di segnaposto occidentale di Israele nell'area, con una rivendicazione di autonomia che inizia a non piacere più ai padroni occidentali; l'isolamento curdo e i limiti con cui si scontra necessariamente uno dei più importanti esperimenti di autogoverno collettivizzato locale degli ultimi decenni; il cambio di regime in Siria in un momento di debolezza del Libano e di relativo declino dell'influenza iraniana e russa, e di ascesa del ruolo della Turchia nell'area. Non si tratta solo di geopolitica (lo sottolineano i compagni nei due articoli appena linkati da Rivoluzione.red): gli effetti li vediamo anche sulle manovre finanziarie dei governi (in particolare del nostro). Pur nel classico equilibrismo delle manovre finanziarie del fragile sistema capitalistico italiano, alcuni tratti di una transizione verso un'economia di guerra si iniziano a intravedere - non tanto e non solo sull'aumento delle spese militari (che in ogni caso non sembrano raggiungere le percentuali sul PIL che avevano nel corso della seconda guerra mondiale), ma anche nell'intensificarsi di incentivi alla natalità - come il bonus bebé - o nello spostamento di risorse dall'educazione sessuale e alle differenze nelle scuole alle iniziative sulla fertilità. Che come si può immaginare non è né una questione di intrinseca crudeltà né di ignoranza, come ancora la stampa democratica cerca di sostenere, e nemmeno di profitto immediato da parte dei lobbysti, ma un tentativo di reagire alla crisi economica su più livelli (crisi di sovrapproduzione, crisi finanziaria, crisi della riproduzione sociale e biologica, crisi militare).

Bisognerebbe davvero iniziare a leggere in modo sistematicamente intrecciato queste vicende: il successo relativo delle forze politiche e dei governi dell'internazionale di estrema destra e la loro capacità di interpretare gli interessi delle lobby reazionarie non consiste tanto in un fenomeno di reazionarizzazione delle masse, quanto più nel proporsi come gestori in alternanza democratica di una situazione economico-politica di caos globale crescente, che né i capitalisti né i loro tradizionali rappresentanti moderati hanno intenzione di gestire in prima persona, a fronte di una partecipazione alla politica istituzionale in evidente crollo verticale. Il che non vuol dire che non abbiano fragilità, né che il loro compito "classico" di difesa corporativa del capitale e di irregimentazione della base sociale in vista di una congiuntura di guerra si stia dispiegando appieno.

Tornando sul punto di metodo più generale di qualche paragrafo fa, che faccio fatica a riassumere in poche parole. Mi sembra che da un lato, quando si cerca di afferrare il reale e l'attuale, e le loro trasformazioni in accelerazione, ci si concentri molto sui fatti e sugli attori coinvolti in modo troppo estemporaneo e localizzato, e dall'altro lato - quando si cerca di dare delle interpretazioni sistemiche e strategiche - troppo spesso si scambia il teorico con l'astratto, il generale col generico, il logico con lo storico. E non aiuta questa dimensione storica di crinale, come di affacciarsi su un baratro con la sensazione di stare già cadendo senza aver ancora messo il piede in fallo.