Lavoro di merda

A love letter; or Why I Quit Academia

Lavoro di merda
Mamma dice sempre che sono bravo a scrivere.

Stanno partendo delle contestazioni alla riforma dell'università - o meglio, prima è partita l'ennesima controriforma. Venerdì 8 novembre alle 18 se ne parla a Bologna; io invece il giorno prima, giovedì 7, sarò a Bergamo al Pacì Paciana con la compagna Eliana Como e la Fiom a parlare dei miei due argomenti preferiti: sindacato e fr*. Ma torniamo a noi: le controriforme universitarie, nella storia italiana recente, sono stati i momenti più propizi per una mobilitazione di massa. La vedo così: negli scorsi decenni il meccanismo prevedeva una visibilità mediatica prestata al movimento dalla preoccupazione per "il futuro dei giovani" e una componente di massa data dalla mobilitazione sindacale. Il meccanismo dello sciopero generale, negli ultimi anni, si è incrinato, anche e soprattutto a causa delle scelte sia dei sindacati confederali (con scioperi generali chiamati in modo frammentario, localizzato, alternato, poco convinto, giustificato spesso con la scarsa adesione della base ma altrettanto spesso col retrogusto di un'arrendevolezza ai padroni) sia dei sindacati di base (la convocazione troppo frequente di scioperi generali cui aderivano solo sigle sindacali con scarsa massa di manovra non è mai particolarmente convincente). Si è incrinato, anche per motivi di sfiducia, il rapporto tra movimenti studenteschi - e in generale mobilitazioni e politiche della ceto medio impoverito - e mondo del lavoro; forse con qualche timida indicazione di ricomposizione proveniente dal conflitto dialogico tra il movimento femminista e i sindacati e dalla riflessione interna ai movimenti ambientalisti - nonché, naturalmente, dall'impresa eroica della GKN che ha fatto tornare gli operai di fabbrica sulla scena politica italiana.

Questo il quadro, per come l'ho osservato e lo sintetizzerei a spanne. Cosa ne sarà, nescio; sono uno di quei vecchi comunisti per cui la storia non sarà maestra di niente che ci riguardi, ma di sicuro è una severa selettrice. Per parte mia, l'ultima volta che abbiamo provato a prendere in mano la questione universitaria con Ricercatori Determinati, si è messo di mezzo il Covid. Per una volta che si provava a giocare d'anticipo per una riforma del pre-ruolo, béccate sta pandemia. Poi uno dice la sfiga. Diciamo che ci sono stati ulteriori retroscena, che ancora una volta hanno a che fare con il sindacato come strumento e il suo ruolo di freno o di amplificatore degli interessi di classe - e, viceversa, la fiducia che si può riporre nelle sue capacità di rottura. Non ne parleremo (ma più di qualcuno nel sindacato deve ancora chiedere scusa).

Una cosa però la voglio dire: che se per la prima volta osserverò una mobilitazione universitaria dall'esterno, non sarò meno partecipe. Lavorare nell'industria culturale significa scontrarsi continuamente con gli effetti di quella particolare forma di rapporto di lavoro d'altri tempi che viene coltivata nell'antica istituzione, dove a dispetto della burocrazia portata dal Bologna Process e dall'attento calcolo degli epicicli pur di non affermare l'eliocentrismo (ovvero: la scandalosa verità che il mondo esterno all'università esiste), dominano ancora rapporti di lavoro prevalentemente informali, in cui il contratto è semplicemente un orpello. E figuriamoci naturalmente se a parole non sono di sinistra, magari di sinistra radicale o per lo meno con un passato turbolento, esattamente quelle persone che delle riforme universitarie passate rimpiangono, in buona sostanza, la sparizione dei portaborse (dovuta, peraltro, non tanto alle riforme universitarie, ma alle sempre più gravi crisi economiche strutturali del sistema, che da brave persone di sinistra non hanno visto o non hanno saputo leggere: Marx, d'altronde, si sa che serve per scrivere le didascalie dei cataloghi di arte contemporanea).

Questo vuol dire che all'esterno dell'università, dove persino l'industria editoriale si è dotata di criteri di misurazione del lavoro e del corrispettivo dovuto almeno alla sopravvivenza di chi lavora, dove in ogni caso la retorica della "passione" continua a farla da padrone, chi è abituato a pensare il proprio lavoro come una continuità di otium si ritrova a proiettare la propria abitudine al servaggio, alla mezzadria e alla corvée a un mondo industrializzato. Capita per esempio che non si capiscano fasi diverse del processo editoriale - la differenza tra un editing e una bozza, per far un esempio elementare - o che non si sappia calcolare l'equo compenso per la redazione di un manoscritto (in università la compensazione per il lavoro di scrittura è data da borse e contratti di ricerca, e le case editrici si trovano quindi in buona sostanza a pagare solo il lavoro redazionale: alla faccia del vanity publishing). O magari capita, che ne so, quel libro che hai finito e ha più di metà delle note completamente vuote, e non c'hai voglia di riguardare i tuoi appunti, e allora provi ad appaltarlo a quel correttore di bozze tanto bravo che ti ha consigliato la tua amica, sai che è storico dell'arte anche lui, e magari ti rifà al posto tuo la ricerca bibliografica. Ecco, capita che in casi del genere ci si ritrovi, da freelance, a dover spiegare per mesi di non essere fuori dall'accademia per costrizione, ma per liberazione, e che ben volentieri si preferisce svolgere il pedestre lavoro editoriale da banausos piuttosto che compensare il quarto di nobiltà della docenza ordinaria svolgendo lavoro di ricerca o di didattica al loro posto. E che quello che trovo umiliante semmai è rifare le ricerche di qualcun altro.

Mi posiziono quindi con questo sguardo obliquo sull'università: come per le mobilitazioni precedenti, spero che questa parte del sistema renitente allo sviluppo delle forze produttive (ma che continua a fornire sapere e tecnologia proprio per il loro sviluppo) venga spazzata via e ricostruita da capo; lo faccio con poca fiducia (ma ben presente), e soprattutto - stavolta - con la sensazione di aver scansato non uno, ma diecimila proiettili (avendone preso altrettanti). Io ho fiducia che lo sciopero, all'università, anche nella ricerca, si possa fare: basterebbe colpire l'unica cosa che blocca effettivamente il meccanismo, le scadenze nelle consegne e gli obblighi didattici. Ci vuole coraggio e ci vuole ricostruire una cultura orgogliosamente lavoratrice, che senza mezzi termini usi il sindacato e ogni organizzazione necessaria per imporre le proprie rivendicazioni. Ci vuole anche un'alleanza col corpo studentesco, esponendosi con il welfare universitario per sospendere anche le scadenze delle borse di studio, ma anche tirando fuori vecchie forme di accordo come il 18 politico (ma spariamola alta: il 30 politico, chi se ne frega delle valutazioni di questa università). Chissà se succederà. D'altronde la rivoluzione dovrà pur partire da qualche parte.

Nel frattempo, sono ben contento di essermi spostato nel privato: il lavoro nel pubblico non è tutto uguale, e tra la simulazione di feudalesimo dell'università e i suoi ricatti apparentemente inaggirabili, e la possibilità di rifiutare lavori di merda, astenersi dal lavoro e scioperare - individualmente o collettivamente - non ho più dubbi su cosa scegliere. E la soddisfazione di poter chiedere la cortesia di non essere più contattati, per questo o altri lavori, è un'impagabile liberazione. Non è la rivoluzione, ma un briciolo di libertà.

E voi che aspettate a scioperare?
A salario di merda, lavoro di merda.