La promessa di guarigione
In un certo senso, un po' indirettamente, note sul libero arbitrio in politica
La promessa di guarigione di Gianna Pomata (1994) è un testo di storia della scienza molto importante nella tradizione storiografica italiana. Tratta l'evoluzione, in particolare nel territorio bolognese, dell'istituzione medica a partire dalla necessità di mediazione legale e arbitraggio tra i pazienti oggetto della "promessa di guarigione" - un accordo stipulato che regolava la prestazione di guarigione, rimandando il pagamento a guarigione avvenuta - e i guaritori popolari. Vale come genealogia del sistema ospedaliero moderno, e mostra - efficacemente e documenti alla mano - come l'istituzione medico-universitaria non sia stata solo approntata dall'alto per regolare la salute pubblica della popolazione (nel passaggio dal capitalismo commerciale a quello industriale) e la pratica medica illegale dei guaritori. Il suo sviluppo e la progressiva scomparsa dei contratti di guarigione era anche una risposta a delle esigenze espresse dal basso - e anche piuttosto veementi. Si trattava sì di controllare la popolazione, ma anche di controllare i "guaritori" e il sapere circolante perché avesse un certo grado di attendibilità nella guarigione, o almeno garantire l'accountability di quello che oggi chiameremmo il "personale medico".
Le lamentele dei "non guariti" e delle loro famiglie portavano a contenziosi che dovevano essere affrontati con sistemi di arbitraggio che sono uno dei temi molto tipici dell'età primo moderna italiana: un'istituzione simile la troviamo nella Firenze di fine Quattrocento e inizio Cinquecento a regolare i contenziosi tra uomini relativi ad atti di sodomia, specie se non consensuali. Ne parla Christopher Chitty in Egemonia sessuale (2015), in particolare nel capitolo su Firenze, se volete darci un'occhiata.
Grazie tante per la lezioncina di erudizione storiografica. E a noi che ce ne frega?
Negli scorsi due post ho sottolineato l'agency passiva - per così dire - dell'utenza delle piattaforme di comunicazione, legata alla soddisfazione dei propri bisogni o desideri. Che ho trattato tagliandola un po' con l'accetta, quando in realtà è un problema molto serio relativo alla distribuzione del potere nel sistema economico capitalistico e nell'ordinamento degli stati moderni. Ed è lo stesso problema che affronta proprio Pomata nell'esplorare la mutazione istituzionale ed epistemologica (significa che è cambiato lo schema generale con cui si ragiona per fare scienza) avvenuta tra il Cinquecento e l'Ottocento. Allora hanno ragione gli economisti classici e i liberali? La legge di ferro della domanda e dell'offerta è il grande arcano, il nucleo inscalfibile che giustifica il sistema capitalistico e lo rende naturale e inevitabile? Inoltre: i bisogni e i desideri sono naturali o indotti? Se sì alla prima, quanto sono modificabili? Se sì alla seconda, indotti da cosa e quanto eludibili?
Come si vede non è questione che si liquida in due parole. Chiaro che la produzione, il rinnovamento dei modi di produzione e il miglioramento dei suoi mezzi sono dettati, prima di tutto, dalla necessità di rispondere a dei bisogni umani. Questi bisogni umani, se considerati sul lungo periodo - diciamo: sul tempo evoluzionistico o della lunghissima durata storica - possono essere incardinati su processi biologici di carattere più metabolico (fame, sete, sonno, stanchezza, caldo o freddo, pioggia neve o grandine, condizioni di salute, eccetera) o più etologico (come ci comportiamo tra noi e con gli altri animali, come interagiamo col territorio per soddisfare i bisogni di cui sopra). Sul più breve termine sono soggetti a cambiamenti più recenti, spesso più rapidi e meno permanenti, il che non li rende meno impattanti (per esempio: negli ultimi duecento anni le pandemie sono diventate molte di più e molto più frequenti grazie all'impatto che il capitalismo industriale ha avuto sull'ambiente: se volete un riassuntino leggete Contagio sociale del collettivo 闯 [Chuǎng], che ho tradotto io nel 2023). E naturalmente i cambiamenti sociali e immediati di breve termine col tempo possono trasformarsi in cambiamenti biologici e di specie.
In ogni caso, darei per buona la considerazione di Marx (in realtà rielaborata da un'affermazione di Barbon), proprio nella prima pagina del primo libro del Capitale: i valori d'uso li scopre la storia - o se preferiamo la citazione letterale dalla vecchia edizione Riuniti, "È opera della storia scoprire questi diversi lati e quindi i molteplici modi di usare delle cose". Che sia la storia lunghissima della nostra specie o quella, un po' più breve, della Civiltà per come l'ha definita il pensiero europeo in particolare dall'Illuminismo fino a metà Novecento, la trasformazione del modo e dei rapporti di produzione risponde sempre a delle esigenze materiali, che sono sia gli interessi contrapposti di una classe dominante e di una classe sfruttata, sia gli interessi trasversali all'una e all'altra che consentono a quella specifica forma di convivenza sociale di sopravvivere. Con una metafora comprensibile: trovare il modo di tirare la corda il più possibile senza farla spezzare.
Questo vuol dire che tutto quello che viene offerto dalla produzione risponde a dei bisogni o che questi bisogni siano incondizionati? Tutto al contrario. Buona parte delle teorizzazioni a sinistra dei decenni del boom economico corrispondente all'impennata del ciclo sistemico di accumulazione statunitense si concentravano non a caso sul consumismo. Ponevano la domanda: abbiamo davvero bisogno di consumare così tanto? E la risposta era, chiaramente, no. Se così fosse, la legge della domanda e dell'offerta regolerebbe effettivamente la produzione e il mercato in modo spontaneo, cosa che non avviene nei fatti: volumi enormi di materiali e merci vengono sprecati, mandati al macero nel migliore dei casi, e a bruciare o a diventare continenti galleggianti di plastica nei casi peggiori.
E infatti il motivo per cui vengono indotti dei bisogni non è (solo) ideologico, è (soprattutto) pratico: siccome la produzione è pianificata in un certo modo (scalare la produzione di merci per massimizzare il lavoro prestato dai lavoratori e ottenere il miglior profitto possibile), allora verrà prodotto più di quanto necessitiamo, e le scelte che facciamo dipendono in larga parte da quanto ci è reso disponibile dal sistema di produzione. A quel punto che fai, lo butti? Questo spiega per quale motivo è possibile, con un grande dispendio di energie, intervenire sul breve termine e modificare temporaneamente l'orientamento della produzione attraverso il boicottaggio o seguendo il flusso spontaneo della soddisfazione dei bisogni, e allo stesso tempo perché è preferibile, strategicamente e possibilmente cogliendo le opportunità di accelerazione, puntare a governare direttamente la produzione e a interrompere il flusso della sovrapproduzione. Interromperne la logistica crea un sabotaggio e un guasto temporaneo, che il sistema capitalistico ha i mezzi per poter aggirare o riparare sia attraverso la cooperazione sia attraverso la competizione intercapitalistica. Governarla, è un altro paio di maniche.
Questo vuol dire allora che i boicottaggi non funzionano, o che possono funzionare solo se legati a delle ragioni materiali? Ni. Per esempio, è di questi giorni l'iniziativa di migliaia di soci Coop per chiedere al consorzio di interrompere la vendita di prodotti israeliani; è presto per parlare di riuscita dell'operazione (e la risposta della Coop è arrivata subito: il braccio di ferro è appena cominciato), ma il modo in cui sta venendo condotta e il fatto che sia coordinata da delle associazioni mi fa pensare che ha qualche possibilità di riuscita - un po' come era avvenuto negli scorsi mesi con le campagne di boicottaggio mirato alle aziende multinazionali che facevano accordi con Israele, che ha effettivamente ottenuto qualche risultato.
Il punto è che bisogna chiarirsi le idee su cosa voglia dire che delle iniziative politiche di qualunque tipo "funzionano". Se il punto è il raggiungimento di un danno economico consistente e a breve termine a un'azienda multinazionale, gli esempi di boicottaggio riusciti sono tanti e si verificano abbastanza spesso; sono anche frutto di campagne organizzate e di solito sostenute da movimenti di massa che sono in grado di fornire un picco all'efficacia del boicottaggio. Il fatto da chiarire qui è che il boicottaggio non è un movimento di massa, ma uno strumento che può essere usato da un movimento di massa se adeguatamente diretto da una forma organizzativa politica in grado di interpretare il movimento. E che ha come obiettivo creare fastidio o danno nel breve termine.
Qual è la differenza con gli scioperi e i blocchi, allora? Che gli scioperi e i blocchi interrompono direttamente la produzione di merci e la loro logistica (merci immateriali comprese: se insegnanti e bidelli scioperano, le scuole chiudono). Che differenza c'è tra i blocchi e gli scioperi? Che il blocco di un'attività è molto difficile che riesca senza la collaborazione almeno passiva dei lavoratori che svolgono quell'attività. Cosa comporta questo? Che uno sciopero prolungato e generalizzato può avere la capacità di portarsi dietro anche delle operazioni di blocco e anche delle operazioni di boicottaggio, con una dinamica di scalabilità "a valanga" che intensifica tutte queste operazioni.
E da questo punto di vista si illumina anche un'altra questione, che è di carattere più politico, o se vogliamo pure politicista, e che è ancora una volta legata al tema degli scorsi post sui due fenomeni paralleli del presunto esodo da X e della crescita di Bluesky. Perché credo che il fattore ideologico sia meno trainante del fattore del bisogno materiale? Perché mentre il primo ha il privilegio di interpretare e condurre il secondo, non ha però alcuna consistenza, oggetto o motivazione propria perché è un'astrazione. La prassi è cieca senza la teoria (ma agisce comunque), e la teoria non ha effettività fuori dalla prassi. E ci sono numerosissimi esempi storici, compresi quelli più recenti che menzionavo nell'ambito della comunicazione, che mostrano come la prassi sociale modifichi il sistema semplicemente nel suo coevolversi col modo di produzione accuratamente governato dalla classe proprietaria dirigente.
Questo ci autorizza quindi a confondere la prassi sociale con la prassi politica, o a credere che si verificherà uno sviluppo spontaneo delle contraddizioni in azione politica? No, esattamente perché il co- in questo co-evolversi è da intendersi davvero come un abbraccio fatale. Che è esattamente il motivo per cui ho iniziato questo post menzionando gli studi di Pomata per gli arbitraggi di guarigione e di Chitty riguardo alle mediazioni per atti sodomitici tra uomini.
In copertina ho messo uno stralcio di un testo che mi è molto caro perché ha a che fare con le mie tesi di triennale e di specialistica: una cronaca della rivolta artigiana di Messina del 1672 scritta dal palermitano Vincenzo Auria contemporaneamente ai fatti narrati. La rivolta di Messina più nota (per così dire) è quella di due anni dopo, del 1674, ed era condotta contro la corona spagnola in buona sostanza da un pezzo della classe dirigente messinese che voleva mantenere le proprie prerogative di lungo corso sull'indipendenza nella gestione della produzione e nel governo del territorio messinese. La ragione economica più dura era l'interesse sulla filiera della seta e l'esportazione del semilavorato verso il medio oriente, dal quale Messina reimportava lavorati tessili, generando ovviamente una bilancia commerciale in passivo. La corona spagnola aveva avuto difficoltà per tutto il Seicento ad affrontare la crisi economica della Sicilia, tradizionalmente granaio d'Europa, e la crisi politica che comportava la gestione di un territorio ampio come quello sotto il dominio spagnolo a quell'altezza cronologica (colonie comprese). Quella messinese era una parte di aristocrazia tendenzialmente imprenditoriale, accompagnata da una borghesia intellettuale e da un notabilato che ne sposava le ragioni anche per motivi clientelari legati sia ai conflitti sulle ricerche scientifiche dell'università (i galileiani con l'aristocrazia imprenditoriale, i gesuiti con la corona spagnola), sia al patronato artistico, sia alla trasformazione giuridica e istituzionale della città.
Due anni prima, nel 1672, quella stessa aristocrazia (più compattamente, tutto sommato) aveva in buona sostanza generato una scarsità artificiale del grano e delle farine chiudendoli nei magazzini, in conseguenza di una carestia che si era verificata in concomitanza con un'epidemia, facendo levitare i prezzi del bene alimentare essenziale per eccellenza. L'artigianato messinese - la cosa più simile al proletariato che possiamo immaginare in quel sistema produttivo, diciamo - semplicemente sciopera, serra le botteghe e va a cercare i notabili cittadini. Barbero direbbe "andiamo a bruciargli la casa". Finiscono sotto al palazzo dello straticò - qualcosa di simile al sindaco della città - e pretendono pari rappresentanza nel parlamento cittadino (costituito da sei membri): tre per i populares, tre per l'aristocrazia. La contrattazione avviene sotto gli auspici della corona spagnola, che recupera la rabbia popolare concedendo la pari rappresentanza. Dura poco, se due anni dopo gli artigiani - e la parte di classe dirigente che li aveva strumentalizzati - vengono sostanzialmente rimessi a posto e viene messa in piedi una rivolta politica di rilevanza internazionale che coinvolge persino l'intervento di Luigi XIV. Il quale, naturalmente, al momento buono abbandona i messinesi alle loro sorti, la corona spagnola sbarca e mette a ferro e fuoco la città, e questa proto-borghesia cittadina - pittori compresi - emigra in massa.
Abbiamo qui un esempio di un movimento di massa, che usa uno strumento simile allo sciopero, si dà un'organizzazione e si mobilita con delle rimostranze e degli obiettivi politici molto chiari; questi obiettivi vengono raggiunti e, in mancanza di strumenti per generare del movimento successivo, vengono poi semplicemente rimossi dalla classe dirigente e repressi nel sangue col movimento che li aveva generati, per poi ricondurre al disastro l'intera popolazione cittadina. In un certo senso è anche l'atto finale della rilevanza internazionale di Messina, che fino a quel momento era stata una delle città più importanti della Sicilia - molto più di quanto oggi possiamo immaginare.
Resto convinto che da queste vicende storiche qualche conclusione si può trarre.
Posto sempre che la storia non è magistra di niente che ci riguardi.