La locura
Due o tre cose che ho imparato negli anni a essere frocio
Il capo di gabinetto nominato dal ministro Giuli, Francesco Spano, si è dimesso. Apparentemente non per l'annunciato servizio di Report che ne svelerebbe le magagne, ma per fuoco amico aperto direttamente nelle chat di coordinamento di questo governo. Roba che ha fatto dire a Vittorio Feltri - vi prego per favore di lasciar decantare il nome di Vittorio Feltri associato a questo virgolettato - che "non c’è cronista politico d’Italia, me compreso che in questi giorni non abbia ricevuto telefonate di politici e colleghi che raccontavano, in una specie di telefono senza fili, storie incredibili sul ministero del ‘CULtura’, su orge gay al ministero e altre cose assurde e francamente vergognose persino per uno come me che dell’esagerazione ha fatto una cifra professionale". Vittorio Feltri. Che, per inciso, sappiamo perfettamente che è falso come le monete da tre euro e mezzo quando dice "ma io strizzo l’occhio, scherzo, lo faccio in chiaro, non metto in circolo un pissi pissi omofobo e schifoso per sporcare la gente o indebolire un ministro". Quello che realmente avviene è che stavolta ha buone ragioni non tanto per difendere Spano, quanto per criticare il governo dal fronte liberale.
Non tutti se lo ricordano - o meglio: sta tornando nel dibattito la notizia man mano che passano i giorni - ma qualche anno fa (2017) era già stato costretto a dimettersi da presidente dell'Unar (l'ufficio nazionale antidiscriminazioni, quello che eroga i fondi per le associazioni) per un'inchiesta delle Iene costruita sul nulla. In pratica: siccome l'Unar aveva erogato - come di costume - un finanziamento ad Anddos (oggi Arco), l'associazione che riunisce circoli associativi come saune, bar e discoteche gay nata in buona sostanza da una scissione di Arcigay di più di dieci anni fa, si era scatenata la solita caccia al pederasta con tanto di insinuazioni su un ipotetico finanziamento pubblico alla prostituzione maschile.
Che nelle saune e nelle discoteche gay si scopi, potevate immaginarlo anche senza un'inchiesta delle Iene, ma la struttura associativa serve esattamente a quello: si tratta di circoli privati in cui si accede con regolare tesseramento. Fine della discussione. Nella mia esperienza, non mi pare succeda niente di particolarmente diverso da altri club europei e statunitensi, e nemmeno rispetto alle discoteche eterosessuali - e sottolineo "eterosessuali" perché è il caso di parlarsi chiaramente su questo tema, ovvero che i locali misti tanto celebrati in Italia nelle chiacchiere da bar vanno definiti per quello che sono, e c'è un motivo per cui faticano a decollare discoteche e locali misti. Sono, insomma, dei luoghi di socialità ludica, dove la parte associativa del mondo Lgbtqia+ costituita da associazioni come Arcigay, Famiglie Arcobaleno, Rete Lenford e Plus copre invece la parte di socialità più di servizio - sportelli legali antidiscriminazione (sul lavoro e per le interminabili battaglie sul riconoscimento dei figli), centri antiviolenza, sportelli e sostegno alla salute sessuale, gruppi di autocoscienza e via dicendo.
Ora, a meno che non pensiamo - e sarebbe davvero la pistola fumante del peggior moralismo omofobo italiano - che le attività antidiscriminazione siano qualcosa di diverso dall'associazionismo generalista (Arci, Aics e via dicendo) grazie al quale una buona metà dei locali del centro-nord Italia recepisce finanziamenti pubblici e ha una tassazione agevolata anche quando non svolge un'attività sociale in senso stretto (e svolge invece un ruolo di socialità ludica perfettamente presente a toscani, romani ed emiliano-romagnoli, e anche ai loro nasi), mi pare che non ci fosse assolutamente nulla di cui sorprendersi, indignarsi o preoccuparsi. E infatti è caduto tutto nel vuoto. Niente prostituzione maschile, niente sovvenzioni pubbliche allo spaccio. Mi verrebbe da dire: peccato.
Perché davvero, arrivati a questo punto preferirei di gran lunga - e pensiamo come stiamo messi se da frocia e comunista rivoluzionaria inizio a ragionare come i blandi leader del riformismo Lgbtqia+ degli scorsi decenni - che questa lobby gay esistesse, e non come benefico e liberale gruppo di pressione riformista, ma proprio con le caratteristiche criminose e malavitose che le vengono attribuite; che davvero beneficiassimo di un'influente rete di corruttele con la quale finanziare la nostra sopravvivenza paraclandestina. Ah no, in effetti sarebbe un passo indietro di decenni, visto che non solo negli Stati Uniti i più o meno dichiarati gay bar - compreso lo Stonewall - erano a proprietà (e talvolta gestione) mafiosa. Ne parlava anche Mario Mieli nel capitolo più interessante (e più vicino a qualcosa di simile a un marxismo effettivo e non vagamente umanistico) di Elementi di critica omosessuale: "Desublimazione repressiva. Protezione. Sfruttamento. Falsa colpa. Riformismo". Nel caso qualcuno si desse la pena di leggerlo davvero.
E invece questa lobby con queste caratteristiche non esiste, mentre quello che realmente esiste è una società parallela nella quale continuiamo a essere relegati non tanto e non solo nella celebrazione di un'orgogliosa e visibile separatezza, ma nel margine di una controsocietà semiclandestina. Che per inciso, ha la stessa struttura di rete comunitaria di contatti informali - e quindi nulla di realmente politico - sia che si tratti della sua versione a capitalismo avanzato, liberale o neoliberale, e che privilegi proprio la pratica del networking (spesso di carattere professionale e di business), sia che privilegi la pratica del contact più tipica di una comunità e controsocietà interclasse. La distinzione la prendo da questo libro fondamentale di Delany, ancora non tradotto in italiano in mezzo a tutte le stronzate queer che il mercato editoriale italiano ha deciso di cacare. Non insomma una potente, rispettabile e influente lobby di advocacy, non una pericolosa rete mafiosa assemblata a cazzi e culi, e nemmeno un grande partito frocialista rivoluzionario organizzato con i sacri crismi di Lenin e Luxemburg.
Io la chiamo da anni gay public network, che per inciso è anche il titolo del libro che da sette anni sto provando a scrivere. In buona sostanza, per dire che non è strada che sbuca. Per me è un mistero come si possa ancora confondere un banale fenomeno sociale di aggregazione intorno a un comune interesse sessuale e a una comune discriminazione, che ha assunto varie forme anche di occultamento all'interno degli spazi sociali maschili (e in quelli working class in particolare) nei secoli di gestazione del capitalismo contemporaneo, con il potenziale di un'organizzazione rivoluzionaria. Soprattutto dopo decenni in cui anche il gioco delle tre carte tra "il sociale" e "il politico" delle teorie più movimentiste ha mostrato tutte le corde che poteva mostrare, specialmente in Italia in cui ci hanno massacrato di manganelli, ci hanno ammazzato compagni, abbiamo perso, straperso e riperso ancora.
Ma tant'è: a quanto pare all'accademismo queer e alle sue proiezioni politiche anarcoidi piace ancora far cruising nell'utopia della rappresentazione dissidente (ed ecco, forse finalmente vi ho spiegato perché il mio cruising è invece nel collapse), nella performance collettiva deiettiva e nella politica dell'enunciato rivoluzionario. Come se fosse qualcosa di diverso e inassorbibile dal feticismo irrazionalista ed estetizzante delle serie Netflix. Quello che rivolgono proprio a quella stessa comunità a cui da parte antagonista si assegnano mistici poteri di "sovversione", e che invece è, semplicemente, la nostra inerte, passiva condizione sociale sviluppata deterministicamente sugli stessi binari dei flussi di forza-lavoro. Dalla provincia agricola verso le concentrazioni metropolitane. Dai centri cittadini borghesi verso i confini della periferia immediata a potenziale gentrificabile. Dalle famiglie tradizionali verso le incasinatissime s/famiglie e le loro spontanee e insufficienti forme di mutuo aiuto. Ma è tutto quello che abbiamo, e qualcuno prova a scommetterci sopra pensando che questo minimo sociale sia il contraltare antidialettico (o dialettico-negativo) del minimo riformista rappresentato dal più blando movimento Lgbtqia+ del mondo occidentale. Una slogatura dell'azione politica che ha i tratti della paralisi traumatica.
Abbiamo infatti delle ottime ragioni per rintanarci in queste reti, se ogni volta che salta fuori un caso di abuso su minori c'è sempre qualcuno pronto a dire "e allora Pasolini", se per ogni caso Boccia salta sempre fuori un caso Spano. Se, insomma, ci sono solo due modi per essere finocchi in Italia: nascondersi e subire, o apparire in TV come Malgioglio e Platinette a fare da garanzia che nemmeno il matrimonio egualitario verrà mai conseguito in questo paese, e che all'interno della comunità gay c'è chi è pronto a lottare per la famiglia tradizionale. Tre anni fa (all'indomani della bocciatura del ddl Zan) Yadad De Guerre in un articolo su Jacobin Italia faceva il punto su questo tema, sottolineando un rimando chiaro tra l’omofobia strutturale della produzione legislativa italiana e quella non solo dei legislatori che si sono succeduti, ma dell’intera società circostante:
se il Ddl Zan è, come si sta dicendo ovunque, «morto», non dipende – e non può dipendere – soltanto da Italia Viva, dalla Lega e da Fratelli d’Italia, dai voti segreti o dalle strategie per il potere, per quanto le analisi possano essere condivisibili e convincenti: è la società italiana tutta a essere pervasa dalla violenza omolesbobitransfobica. Dovremmo poterlo dire come prima cosa, dovremmo poterci lavorare su. […] Nei distopici mesi della discussione intorno al Ddl, il dibattito pubblico si è concentrato sulla libertà di espressione dell’uomo della spazzatura ed è stato vano ogni tentativo di riportare al centro le «sacrosante» tutele per le persone Lgbtiq+: com’è possibile che non sia questa, ora, la materia di riflessione? Com’è possibile non dire mai che è stato tutto questo sapiente decentramento uno dei motivi principali, se non addirittura il motivo principale, della sconfitta? Mentre, invece, suona più evidente, più cristallino, più vero il gioco tra partiti o l’elezione del Presidente della Repubblica?
Lo vedete, vero, cosa intendeva dire, e cosa intendo dire in questo post. Ovvero: come si fa a credere genuinamente in Italia alle promesse di integrazione delle persone Lgbtqia+ che ogni tanto emergono - in positivo, come una proiezione progressiva e futura dell'emancipazione Lgbtqia+, o in negativo, come il pericolo di una sussunzione omonazionalista dell'intera comunità, che si voglia recepirle con spirito di conciliazione sociale o che le si voglia soppesare come lusinghe del potere? Era esattamente il tema che mi ero deciso ad affrontare nell'intervento per la Scuola Giacobina il mese scorso, e che avevo chiamato proprio perciò Dialettica dell'inclusione. Perché nessuno dei due poli di questa contraddizione mi pare soddisfacente - né in generale, né tanto meno alle condizioni materiali e politiche che viviamo in Italia.
Abbiamo dovuto aspettare una settimana perché almeno Tomaso Montanari andasse in TV a parlare dell'omofobia sottesa a questo secondo caso Spano, nel silenzio cimiteriale delle sinistre che anzi quasi quasi compartecipano alla caccia al frocio che si sta verificando. Non una parola da parte della grande intellettualità di sinistra, dal mondo dei saloni del libro, dai corridoi dei premi letterari, dalle penne illustri dei giornali della sinistra radicale, dalle voci tonanti e autorevoli del femminismo della differenza che giurava e spergiurava che non era contro noi froci il sostegno all'introduzione del reato universale per la gestazione per altri. Nel frattempo, nella mia rete frocial, la principale preoccupazione degli uomini gay - beninteso, per lo più piccolo-borghesi di sinistra, impegnati e impegnatissimi, sempre pronti a condividere l'ultimo meme contro la Meloni - è capire se Giuli è della parrocchia oppure no. Alla faccia del ceto intellettuale.
Non sorprenderà nessuno sapere che in questa omofobia bipartisan il direttore d'orchestra sono i consueti Pro Vita e Famiglia, che sono talmente blindati da andare serenamente a farsi intervistare da Gruber. La quale, come molta parte del moderatismo e liberalismo italiano, non ha proprio voluto capirne la strategia, dopo anni della loro presenza visibile a partire almeno dalle Sentinelle in piedi, e pensa - ancora! - di "prenderli in castagna" con una domanda sulle "famiglie tradizionali" di Fratelli d'Italia. Non capendo per esempio che Pro Vita e Famiglia non ha alcun vincolo di partito, ma è invece un gruppo di influenza parte di una rete internazionale, con una propria agenda, e che non ha problemi ad affermare seraficamente che certo, le regole sulla famiglia tradizionale valgono anche (soprattutto!) per i loro interlocutori politici al governo. Jacopo Coghe non tutti lo conoscono, ma è il vicepresidente del Congresso mondiale delle famiglie, ed è particolarmente bravo a incarnarne lo spirito basato sullo spingere la propria agenda - omofoba, certo - senza mai accennare nemmeno indirettamente alla possibilità di fare affermazioni direttamente ed esplicitamente omofobe. Per loro parlano i fatti e l'agenda, gli obiettivi e il progetto per il paese (e per il mondo, s'intende).
E qui arriviamo al nodo materialistico della questione, la domanda - cioè - alla quale l'impostazione di Yadad De Guerre in quell'articolo su Jacobin non può rispondere (e d'altronde non è nemmeno nelle intenzioni dell'articolo). Prendiamo per esempio quest'intervista del 2019. A domanda diretta dell'interlocutore, Coghe risponde facendo conti in tasca al paese, e tutto sommato sono gli stessi conti che abbiamo sentito fare a Meloni in campagna elettorale. L'analisi economica magari non emerge come brillantissima, ma è una preoccupazione costante dei ProVita e Famiglia collegare il loro programma d'opinione a un piano economico specifico: "fare figli non è un bene solo per le famiglie o per le coppie di sposi ma è un bene per tutto il paese" (e gli intervistatori giù a dargli ragione "e figuriamoci se su questo non siamo d'accordo, la scarsa natalità è un male, non c'è dubbio", "ovviamente sulla denatalità siamo tutti d'accordo"). Incalzato da Guidi del Messaggero, Coghe continua:
un figlio è sì un bene per la famiglia, ma quel figlio un giorno diventerà un uomo o una donna che lavoreranno, che produrranno e faranno girare l'economia per il paese, pagheranno i contributi e serviranno per le pensioni di chi oggi sta lavorando [...]. Servono sia manovre economiche sia però fare ripartire una cultura della famiglia - e una non può andare senza l'altra, perché dare solamente i soldi alle famiglie non basta [...] Noi non siamo contro nessuno, noi siamo padri madri figli che siamo qui e ci riuniamo per parlare della bellezza della vita e della famiglia. Chi ci attacca non si è nemmeno preso la briga cinque minuti di andare sul sito e leggere i temi che verranno trattati a questo congresso, hanno estrapolato affermazioni di nostri speaker e relatori veramente calunniandoli. [...] Noi chiediamo semplicemente libertà. Ci si riempie la bocca di pari opportunità, pari diritti, ma perché le donne non devono avere lo stesso diritto di poter lavorare e poter stare a casa con i figli? Le donne devono essere libere di scegliere. [...]
Incredibilmente (e come al solito) Coghe (come fa Brandi e come fanno tutti i portavoce di quest'area politica) arriva alla fine dell'intervista senza aver detto una sola parola contro tutti i soggetti che vengono esclusi da questo discorso, nonostante le sue conseguenze logiche e pratiche le vediamo tristemente ogni giorno della nostra fottuta vita queer. Ma il fatto che mi pare principale è l'ossessione demografica intorno alla quale il discorso dei Pro Vita e Famiglia si costruisce non come una pura operazione ideologica, ma come un programma economico e politico condotto con argomenti materialistici, ai quali le sinistre continuano a rispondere col solito repertorio spuntato: politiche dell'enunciato, domandine sofistiche e insinuanti, esposizione di micragnose contraddizioni logiche. Quando invece Coghe lo dice chiaro e tondo: l'Italia ha un problema di riproduzione della forza-lavoro. Ed è un problema su più livelli, e basta guardare un talk show e aprire un giornale - che sia La Stampa, il Corriere, Repubblica, il Sole 24 ore - degli ultimi vent'anni per vedere ricorrere il tema demografico costantemente.
Il ritornello suona più o meno così: l'Italia rischia di andare in deficit demografico a causa dell'aumento dell'aspettativa di vita e della conseguente riduzione del tasso di natalità, che viene compensato a mala pena dall'immigrazione. D'altronde dice Coghe: "serve sensibilizzare anche e fare tornare far capire qual è l'importanza di una cultura della famiglia, quindi lavorare su un doppio binario [...] anche dare solo i soldi alle coppie non è detto che basti per far uscire dallo stallo demografico in cui siamo, oggi la media di figli per coppia è 1.2 e questo non permette il tasso di ricambio generazionale, cioè: tra trent'anni, quarant'anni ci ritroveremo in un'Italia che sarà un ospizio per anziani". La soluzione di destra è fermare l'immigrazione e far figliare le famiglie tradizionali, quella di sinistra far pagare le nostre pensioni alle persone che arrivano a farsi sfruttare dallo strepitoso sistema capitalistico a stagnazione costante (di lacrime di coccodrillo oltre che di salari). Bella merda: non una persona a cui venga in testa di alzare la voce su questo punto, tolto il movimento femminista - in particolare Non Una di Meno - al quale manca però un pezzo di analisi che va necessariamente integrato.
Per quanto mi riguarda, sulla base di quello che ho osservato in questi anni, il pezzo di analisi mancante è che il problema ruota intorno a tre aspetti cruciali: spesa pubblica ingente (pensioni e assistenza sanitaria), assetti patrimoniali del piccolo risparmio privato, dimensione della piccola e media impresa. Avete capito ora di cosa parlavo qualche settimana fa quando deliravo sul ruolo delle piccole e medie imprese nell'economia italiana - e nella sua società. Un paese di PMI necessariamente sviluppa una dimensione strapaesana in cui la maggior parte dell'accumulazione è generata non per rinnovamento del capitale fisso attraverso avanzamenti tecnologici o miglioramenti organizzativi, ma attraverso lo sfruttamento più diretto possibile del capitale circolante (tra cui la forza-lavoro). Che per il ruolo che ha assunto una buona componente dell'economia italiana in rapporto al mercato europeo - e in particolare alla Germania - funziona benissimo. Ma per prendere sul serio questa questione, che viene peraltro costantemente comunicata dalle testate borghesi, a spron battuto e a suon di dati, tocca credere davvero che gli operai non siano spariti, che il potente terziario italiano che abbiamo visto sorgere è più logistica che cultura, più magazzini che biblioteche, più vecchio e duro capitalismo materiale che nuovo e astratto capitalismo cognitivo.
Tocca credere insomma che la teoria marxiana del valore sia valida, che il lavoro riproduttivo non salariato e non retribuito non producano valore nella stessa forma del lavoro produttivo propriamente detto (ovvero la forma-valore analizzata da Marx nel primo libro del Capitale, quella cioè che permette accumulazione di capitale). Perché da questo dipendono una serie di conseguenze, tra cui il fatto che i contributi fiscali da lavoro non bastano a coprire le impennate di inflazione con cui l'Italia ha governato la propria economia dagli anni Settanta e l'annesso debito pubblico prodotto dalla scopertura seguita al boom economico; tra cui il fatto che rispetto all'immenso sviluppo del welfare di tre quarti di secolo c'è uno spaventoso arretramento, in un contesto di tagli pluridecennali, che addossa alla famiglia nucleare il ruolo di ammortizzatore sociale sostitutivo (e questo spiega l'enorme proporzione di risparmio privato in Italia). E sospetto fortemente che il problema con la gestazione per altri, in Italia, non sia tanto sull'effettiva volontà riproduttiva della popolazione Lgbtqia+ o della popolazione eterosessuale infertile (cioè il vero soggetto della gestazione per altri, molto più che la popolazione Lgbtqia+), ma anche la sostanziale irrealizzabilità di un incremento demografico sostanziale attraverso tecniche medicalmente assistite, che richiederebbe un investimento pubblico nella sanità che lo Stato italiano non può e non vuole sostenere, non essendo uno stato socialista (sull'orlo del baratro).
Se volete farvi un'idea di quanto queste idee siano effettivamente e realmente influenti, fatevi un giro sulla rivista di Confindustria. Vi faccio qualche spoiler partendo dall'abstract dell'introduzione:
Le dinamiche della popolazione, com’è ben noto, influenzano la crescita economica, la sostenibilità del debito pubblico e dei sistemi previdenziali, la produttività, il saggio di risparmio, i conti con l’estero, e la struttura produttiva, solo per citare alcuni aspetti. Ci siamo dedicati, con gli autori che hanno contribuito al volume, ad analizzare alcune delle tendenze demografiche più significative del nostro Paese – a confronto con altri partner europei – ed a scrutare con una “lente demografica”, alcune delle dinamiche economiche e sociali che appaiono meritevoli di particolare attenzione.
E si può andare avanti passando in rassegna i titoli di alcuni degli articoli: "La bassa fecondità non è destino. Spunti per riequilibrare la demografia italiana"; "Le ragioni della bassa fecondità italiana: fra cambiamento culturale, incertezza economica e rigidità istituzionali"; "L’economia della terza età: consumi, ricchezza e opportunità nella società che invecchia"; "Gli effetti della migrazione sulla struttura produttiva in Europa: un approccio basato sui task lavorativi". Vi lascio la scelta di continuare ad avventurarvi nel tunnel degli orrori. Anzi: vi incoraggio a farlo. Perché è questo il "fuori" in cui "c'è la morte" di questo "paese di musichette". Questo è il rovescio materialistico della locura come dispositivo ideologico e di disciplinamento sociale. Così finalmente vedete quanto è profonda la fottuta tana del bianconiglio e che cosa ci stiamo realmente giocando mentre fate pagare alle frocie sempre un pezzetto in più di debito con la giustizia (anche quando non c'è) a colpi di umiliazione pubblica, mentre fate battutine sui nostri culi, mentre continuate a fare pelose distinzioni tra diritti sociali e diritti civili. O mentre, semplicemente, ci tenete a ribadire che a voi però piace la gnocca.